CELIACHIA NEI BAMBINI: I RISVOLTI PSICOLOGICI

Dott.ssa Annalisa Amadesi

La Dott.ssa Beatrice Margani ha pubblicato, qualche settimana fa, un post molto interessante relativo alla celiachia, illustrandone i sintomi, le terapie, e fornendo inoltre qualche utile consiglio.

Vorrei invece soffermarmi, dal mio punto di vista, su quelli che possono essere i risvolti emotivi che ruotano intorno a tale disturbo.

Il cibo è spesso veicolo di significati: piacere, convivialità, momento di incontro e socialità, creatività quando ci divertiamo tra i fornelli, nutrimento, attaccamento (se pensiamo al valore che ha nei primi anni di vita, ad esempio quando il bambino viene allattato al seno dalla madre).

Capiamo bene allora che le difficoltà inerenti l’alimentazione possono innescare, anche dal punto di vista emotivo, dei disagi.

In particolare, la diagnosi di celiachia comporta, nel soggetto e in chi lo circonda, un enorme cambiamento che, a volte, può tradursi in un disagio psicologico; ci si ritrova costretti a ridefinire in parte la propria quotidianità e le proprie abitudini, ma anche la rappresentazione mentale che una persona ha di sé e del modo in cui gli altri la percepiscono.

In certi casi, tale diagnosi, può rappresentare una sorta di perdita che va elaborata con i giusti tempi (“non sono più quella persona che può mangiare in quel modo”…).

Quando la diagnosi arriva in età prescolare, il bambino è ancora molto piccolo e difficilmente si renderà conto di ciò che gli sta capitando. Dovrà comunque imparare ad alimentarsi in un modo differente e, gradualmente, a capire che certi alimenti andranno evitati perché potrebbe stare male fisicamente. In tal caso, l’aspetto più arduo per la famiglia sarà  far capire al bambino ciò che è bene e ciò che è male per lui.

Se il soggetto si trova in età scolare, al momento della diagnosi, può emergere il timore di venire deriso, o la sensazione di essere diverso dagli altri.

Quello che i genitori possono fare è aiutare i figli a parlarne con loro, ascoltandoli, così da non far loro interiorizzare timori o ansie, che li farebbero soffrire inutilmente.

La famiglia può aiutarli a comprendere, può sostenerli nei momenti di difficoltà, può cercare di sensibilizzare gli insegnanti e gli amici, con l’obiettivo di collaborare tutti insieme per far sentire il più possibile il bambino accolto e sostenuto.

Una diagnosi di celiachia che arriva nel periodo dell’adolescenza può acutizzare il groviglio emotivo che il soggetto sta già sperimentando. Anche il tal caso, i genitori dovrebbero mostrarsi presenti, comprensivi, ma anche capaci di infondere fiducia al figlio, incoraggiandolo inoltre a non limitare le relazioni laddove tendesse ad isolarsi.

Ricordiamoci sempre che servirà del tempo a tutti, al soggetto che soffre di celiachia e ai suoi cari, per accettare la diagnosi e per gestirla con serenità.

Anche nel caso in cui si scopra la celiachia in età adulta i vissuti emotivi non sono semplici da affrontare: ci si può sentire diversi, può diventare faticoso inizialmente fare la spesa (anche se al giorno d’oggi ormai tutti i supermercati sono molto forniti da questo punto di vista), pensare a che cosa cucinare, andare al ristorante. Diamoci tempo, ma se tutto diventa troppo pesante, emotivamente parlando, possiamo pensare di rivolgerci ad uno psicologo specializzato per un sostegno temporaneo.

Ascoltando alcuni genitori di figli celiaci ciò che spesso emerge è un vissuto di senso di colpa o di responsabilità: tutti quanti vorremmo avere un bambino con un corpo perfetto, in salute, con un buon funzionamento, e fare i conti con qualcosa di diverso non è semplice e spesso ci sentiamo, consciamente oppure no, in colpa per questo.

Attenzione però: il senso di colpa è assolutamente sbagliato! Nessuno mette al mondo un figlio perfetto, nessun essere umano è perfetto, da ogni punto di vista.

Se nostro figlio riceve questa diagnosi, chiediamoci innanzitutto se proviamo un senso di colpa oppure no; se cercheremo di eliminarlo ci sentiremo più liberi per affrontare il resto.

Successivamente, dobbiamo essere consapevoli che c’è un problema e, in quanto tale, va affrontato e gestito.

E’ un problema faticoso, ma non è tra i peggiori: se si seguono certe regole, il disturbo “non ci da fastidio”.

Da genitori dobbiamo cercare di aiutare il bambino a diventare il più possibile padrone della sua dieta; questo lo aiuta a sentirsi capace ed autonomo e ciò infonde nei familiari un maggior senso di tranquillità e sappiamo bene che più noi adulti siamo sereni, più lo saranno i bambini.

Questo è, a mio avviso, un aspetto fondamentale: il genitore, per aiutare il bambino, deve stare bene per primo! 

Responsabilizzare, per gradi, il figlio ci libera dal doverlo controllare sempre.

Cerchiamo di essere il più possibile, anche se non è facile, sereni e di tollerare, laddove capiti, l’errore. Se c’è stata, da parte del bambino, una trasgressione, sgridarlo e punirlo diventa controproducente: potrebbe obbedire lì per lì, ma non è detto che così facendo abbia interiorizzato la regola.

Piuttosto, se ha trasgredito, ed è stato male fisicamente, cerchiamo di confortarlo e, quando sarà più tranquillo possiamo dirgli “ti ricordi che se mangi questa cosa stai di nuovo male, come l’altra volta, anche a me è dispiaciuto tanto vederti così…”. Un atteggiamento simile crea un’alleanza con lui e ci fa percepire dalla sua parte.

Per quanto riguarda infine le occasioni sociali (feste di compleanno, serate in pizzeria etc.) sarà utile parlare prima con gli altri genitori e con i coetanei (a seconda della loro età), onde evitare che gli offrano un alimento per lui dannoso.

A tal proposito, ricordiamoci che più il bimbo sarà autonomo in casa dal punto di vista alimentare, più riuscirà ad esserlo anche fuori, e questo lo aiuterà a sentirsi più sicuro anche in contesti extra-familiari.